Il Gruppo del Laocoonte è una copia romana del I secolo d.C., attualmente conservato nel Museo Pio-Clementino di Roma. Il suo ritrovamento fu del tutto casuale ma cambiò radicalmente il corso della storia dell’arte. La scoperta si deve ad un certo Felice De Fredis che trovò l’opera in una fredda mattina del 1506, cadendo in una buca alle Capocce, sul colle Esquilino. La notizia si diffuse rapidamente portando con sè un boato di stupore. In massa si recarono “a quella casa che lì pare el jubileo” per vedere da vicino il miracolo dalla scoperta. Anche il ponteficie Giulio II della Rovere mandò in avanscoperta il suo fidato Giuliano da Sangallo, accompagnato dal giovane nipote Francesco e da Michelangelo Buonarroti.

Georges Chedanne, Il Laocoonte nella Domus Aurea (particolare) ©DeAgostini Picture Library/Scala, Firenze

Grazie al passo delle Naturalis Historia di Plinio, il complesso scultoreo fu subito ritenuto opera di Haghesandros, Athenadoros e Polydoros di Rodi:

Né poi è di molto la fama della maggior parte, opponendosi alla libertà di certuni fra le opere notevoli la quantità degli artisti, perché non uno riceve la gloria né diversi possono ugualmente essere citati, come nel Laoconte, che è nel palazzo dell’imperatore Tito, opera che è da anteporre a tutte le cose dell’arte sia per la pittura sia per la scultura. Da un solo blocco per decisione di comune accordo i sommi artisti Agesandro, Polidoro e Atanodoro di Rodi fecero lui e i figli e i mirabili intrecci dei serpenti.

Sulla base dei recenti studi condotti da Bernard Andreae, i tre scultori menzionati da Plinio non avrebbero creato ex novo la statua ma avrebbero copiato un originale bronzeo prodotto verso il 140 a.C. a Pergamo da un artista ignoto. Alla base delle sue constatazioni vi è il ritrovamento a Sperlonga del gruppo di Scilla, un imponente complesso di sculture che richiama il Laocoonte per affinità di stile e per la presenza dell’epigrafe-firma in greco di Agesandro, Polidoro e Atanodoro. La grotta in cui è avvenuta la scoperta apparteneva ad una villa collegata all’imperatore Tiberio e questo lega cronologicamente i tre scultori alla prima età imperiale.

L’opera è in marmo bianco, alta 2,42 metri. Ha per protagonista Laocoonte, l’eroe troiano che cerca di salvare la città dalla distruzione, consapevole della reale funzione del cavallo introdotto dai Greci. Secondo il racconto virgiliano, il sacerdote venne punito da Atena, filo-ellenica, che inviò dal mare due mostruosi serpenti per stritolarlo insieme ai suoi figli.

Gruppo del Laooconte – Museo Pio Clementino

Dai volti dei tre personaggi traspaiono emozioni diverse: dallo stupore dolente di un figlio che guarda al padre a chiederne l’aiuto, all’atteggiamento di rinuncia dell’altro ormai morente sotto la morsa del potente animale, fino al grido di dolore, rabbia e pietà di Laocoonte che prova a sciogliere le spire del serpente: si agita, si contorce, cerca la forza di reagire in ogni muscolo del suo corpo.

I suoi arti e il suo corpo assumono una posa pluridirezionale e in torsione che si slancia nello spazio. L’espressione dolorosa del suo viso, pateticamente corrucciato, con le sopracciglia inarcate e le narici dilatate, produce una resa psicologica caricata, quasi teatrale. È una delle sculture più drammatiche del mondo antico e ben si intuisce come la sua immagine abbia potuto interessare in ogni secolo artisti e collezionisti diversi.

Laocoonte – particolare del gruppo scultoreo

Più volte citata e usata come exemplum doloris, divenne il simbolo della veneranda antichità. Lo stesso Giulio II della Rovere comprese immediatamente il valore simbolico di continuità in majestatem et gratiam degli antichi Romani e ne impose la presenza nel suo Cortile delle Statue del Belvedere, strappandola ai Conservatori che la volevano in Campidoglio. 

Federico Zuccaro – Taddeo nella Corte del Belvedere in Vaticano disegnando il Laocoonte, 1595

In origine il gruppo presentava alcune parti mancanti: il braccio destro del padre, le braccia dei figli, un piede del figlio piccolo, metà nuca del figlio di destra, una porzione del serpente tra il figlio di destra e il padre. Dopo un primo restauro, forse eseguito da Baccio Bandinelli, artisti ed esperti discussero su quale dovesse essere la posizione del braccio del sacerdote troiano. Una prima integrazione fu eseguita da Giovanni Angelo Montorsoli e, successivamente, tra il 1725 e il 1727 Agostino Cornacchini intervenne con un restauro integrale. Nel 1906 l’archeologo tedesco Ludwig Pollak rinvenne fortuitamente il braccio destro originario di Laooconte, piegato a gomito e mancante della mano, nella posizione che era stata ipotizzata da Michelangelo: la ricostruzione con braccio proteso venne eliminata e l’arto fu ricollocato alla spalla da Filippo Magi tra il 1957 ed il 1960.

Ripresa frontale del gruppo del Laocoonte con il braccio proteso – fotografia del 1870 ca.

Per due volte il Gruppo del Laocoonte subì un trasferimento forzato dal suo luogo di esposizione/ammirazione: il primo a Parigi, insieme a tutte le opere d’arte depredate dal Direttorio napoleonico con il trattato di Tolentino del 1797. Un disegno preparatorio per un gigantesco vaso in bronzo dorato e porcellana di Sèvres, riproduce il corteo e ci restituisce l’immagine trionfale del Laocoonte che giunge in Francia. Il gruppo scultoreo rimase esposto al Louvre per 17 anni e divenne fonte di ispirazione per molti artisti francesi. Lo scultore e diplomatico Antonio Canova riuscì nell’impresa di riportare l’opera in Vaticano – insieme agli altri tesori sottratti – dopo il Congresso di Vienna del 1815.

Particolare del trasporto del Laocoonte in Francia in una porcellana di Sevres (fonte wb)

Perfetta incarnazione di quell’antico patetico decantato dai collezionisti rinascimentali, il Laocoonte divenne subito l’oggetto dei desideri di molti artisti che lo replicarono in materiale vario e scale diverse. Appena pochi anni dopo la scoperta, Bramante chiese a quattro scultori di trarne altrettante copie in cera e invitò il giovane Raffaello a giudicare la migliore: il modello di Jacopo Sansovino è ritenuto il più perfetto e gettato in bronzo per il cardinale Domenico Grimani. Questa copia venne donata poi al cardinale di Lorena nel 1534, mentre una copia in marmo di grandi dimensioni, oggi agli Uffizi, viene scolpita dallo scultore fiorentino Baccio Bandinelli. Un secolo dopo, Stefano Maderno ne copia le forme in una terracotta dell’Hermitage di San Pietroburgo, mentre una copia della sola figura centrale, contemporanea e nello stesso materiale, è nella Galleria Giorgio Franchetti alla Ca’ d’Oro di Venezia.

Numerose sono anche le placchette sparse nei musei di tutto il mondo. La figura di Laocoonte viene riutilizzata come modello formale anche da Galeazzo Mondella nella placchetta Flagellazione, oggi al Kunsthistorisches Museum di Vienna. Lo scultore Antonio Lombardo riprende la figura del padre ne La fucina di Vulcano, uno dei pannelli per il camerino di alabastro di Alfonso d’Este, oggi conservati nel Museo dell’Ermitage a San Pietroburgo.

Disegni e incisioni finiscono per diffondere dovunque l’immagine del gruppo; tra i primi, interessante è lo studio di Raffaello del 1511 della testa del Laocoonte, preparatorio per la testa di Omero nel Parnaso delle Stanze Vaticane, oggi conservato nelle collezioni Reali di Windsor.

Veronica Verzella

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